Siamo nel 1997, accendendo la radio sentiamo la voce di Justin Timberlake scalare le classifiche, al cinema si riempiono le sale per il film “Bugiardo, bugiardo” con Jim Carrey.
Impazzano i dibattiti circa la somministrazione di psicofarmaci ai bambini “vivaci” dall’altra parte dell’Atlantico, con tante interpretazioni sociologiche che si susseguono e si contraddicono, mentre mantengono un certo favore le teorie psicoanalitiche sull’autismo, che ne identificano la causa nella mancanza di amore materno.
Una voce all’interno della comunità scientifica dà una svolta epocale: la sociologa autistica Judy Singer, conia un neologismo: neurodiversità. Con questa parola la Singer intende contribuire alla presa di coscienza che sia normale, possibile e accettabile che le persone abbiano un cervello che funziona in modo diverso l’uno dall’altro.
Anziché pensare che ci sia qualcosa di sbagliato, di patologico da curare o di problematico, la neurodiversità abbraccia le differenze, tanto nel funzionamento cerebrale quanto nella conseguente espressione comportamentale, come una caratteristica naturale della diversità all’interno della popolazione umana.
Nell’anno 2000 l’attivista americana per i diritti dell'autismo, Kassiane A. Asasumasu, introduce i termini neurodivergente e neurodivergenza per intendere una persona che non può comportarsi come una persona neurotipica, la quale invece mostra i comportamenti attesi dalla cultura dominante in quel contesto storico-sociale.
Si avvia così il lungo percorso di cambiamento del paradigma culturale, ma anche clinico, da un approccio medico e patologizzante ad un paradigma di tipo biopsicosociale.
È grazie a questo lento, ma costante cambiamento culturale che l’attore Jim Carrey ha rivelato di essere sempre stato un bambino che non si fermava mai, energico, veloce e ha parlato con grande spontaneità del suo funzionamento ADHD, condizione che ha definito come “un superpotere” che lo ha reso l’attore che è.
Justin Timberlake ha dichiarato di aver scoperto durante l’adolescenza, a causa di alcuni problemi di concentrazione ed iperattività, di rientrare in quello che comunemente è conosciuto come ADHD. Successivamente gli è stato diagnosticato anche il Disturbo Ossessivo Compulsivo.
Esistono modi diversi in cui la neurodivergenza si manifesta e stiamo imparando a conoscerli, non senza fatiche e pregiudizi, nella vita di tutti i giorni, specialmente per chi è a contatto, a diverso titolo, con il periodo dell’età evolutiva.
L’autismo è noto come “disturbo dello spettro” o ASD, un ampio insieme di condizioni che possono includere problemi di socializzazione e abilità sociali, comportamenti ripetitivi, talvolta difficoltà di linguaggio che possono portare le persone a comunicare solo in modo non verbale.
Il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) è un disturbo di disregolazione delle funzioni esecutive, il che significa che una persona manifesta una certa difficoltà nel regolare le proprie emozioni, i propri pensieri e i propri comportamenti in modo adeguato al contesto.
Le persone ADHD possono avere difficoltà di organizzazione, essere irrequiete, faticare nel ricordare le istruzioni o seguire una sequenza di passaggi, avere difficoltà nell’integrazione di diverse fonti di informazione e nel risolvere problemi;
Anche i Disturbi Specifici dell’Apprendimento rientrano nella sfera della neurodivergenza coinvolgendo il linguaggio, la lettura, la scrittura e le competenze di calcolo matematico.
Altri tipi di neurodivergenza sicuramente meno conosciuti sono: la disprassia, una difficoltà nella coordinazione dei movimenti fino-motori e/o grosso-motori, il disturbo oppositivo-provocatorio, la plusdotazione, la quale viene accertata con una serie di test, in cui la conditio sine qua non consiste nel l’aver ottenuto un punteggio del Q.I. pari o superiore a 130.
Tutte queste specificità nel funzionamento cerebrale e comportamentale possono combinarsi tra loro in comorbidità o come si preferisce riferire con il termine “doppia eccezionalità”.
Ecco dunque che avremo un ADHD con DSA, un ASD con disprassia. Dietro tutti questi acronimi ci sono persone, ci sono famiglie, ci sono bambini e genitori e tutto il mondo relazionale in cui sono immersi. Le richieste sociali sono standardizzate non a caso su un funzionamento neurotipico e da questo nasce il disagio nell’adattarsi all’ambiente del neurodivergente e i falsi miti, i pregiudizi e le credenze circa il diverso funzionamento.
Spesso i commenti di chi non conosce la neurodivergenza si soffermano sulla maleducazione, sulle incapacità dei genitori d’impartire una disciplina corretta ai propri figli, sul fatto che ricevono un’educazione troppo morbida e permissiva.
Se così fosse avremmo trovato soluzioni semplici e correzioni ai comportamenti ritenuti non adatti con il solo cambiamento delle figure genitoriali.
Questa esposizione al giudizio inoltre, lede l’autostima della persona neurodivergente e dei suoi famigliari, innescando un senso di incomprensione, una solitudine e un isolamento sociale, al fine di evitare di essere giudicati. Ecco che il bambino, l’adolescente o l’adulto neurodivergente inizia a rinunciare alle esperienze sociali a causa del timore di essere rifiutati in quanto “strani” o “incapaci”. Altresì l’individuo non viene accolto più nella vita sociale e respinto: non viene invitato alle feste di compleanno, viene evitato al parchetto, viene emarginato dal tessuto sociale, con ricadute sulla salute mentale e sullo sviluppo delle autonomie.
Spesso ai genitori viene posta la domanda: “non ve ne siete accorti prima?”. La risposta è no.
No, perché talvolta gli stessi genitori sono inconsapevolmente neurodiversi, pertanto i comportamenti del proprio figlio/a non viene rilevato come particolare, stravagante, perché rientra nel proprio modo di funzionare, pertanto “normale”.
No, perché semplicemente nelle famiglie mononucleari non è comune fare la conoscenza di neonati e bambini in epoca precedente alla propria genitorialità quindi i genitori non hanno termini di paragone: non hanno idea di come sia un bambino.
No, perché qualora se ne accorgano spesso ricevono le rassicurazioni, anche dei professionisti sanitari e/o dell’educazione, circa il fatto che ogni bambino ha i suoi tempi di sviluppo, stiamo a vedere come va, è ancora piccolo per dire, diamogli fiducia, si deve adattare.
Questa proposta attendista da un lato rispettosa dei tempi di crescita, rischia però a volte di far sentire il genitore incapace nei confronti del proprio figlio, con il quale non riesce a sintonizzarsi sui ritmi e bisogni che sono oggettivamente incalzanti, talvolta totalizzanti, che impongono al genitore grossi sacrifici in termine di energie e risorse, con un impatto sul benessere dell’intera famiglia.
Pensiamo ad un neonato ASD: potrebbe piangere ore, voler stare sempre in movimento, avere disturbi del sonno che non si regolarizzano creando un forte stress, prevalentemente della madre, in quanto la nostra società delega ancora quasi interamente i compiti di accudimento al genere femminile.
A questa mamma vengono poi fornite rassicurazioni sul fatto che forse è un bambino ad alto contatto.
Tutti i bambini sono ad alto contatto, ma i bambini neurodivergenti possono essere così richiestivi da lasciare la mamma sopraffatta dalle richieste di contatto e presenza, talvolta rifiutando qualsiasi altra figura.
Non stiamo affermando che sicuramente un bambino che vuole la mamma è un bambino neurodivergente, ma l’intensità della richiesta potrebbe, oppure no, fornirci quantomeno qualche spunto di riflessione sull’approfondire la situazione.
Prendiamo ad esempio un bambino di circa due anni che ha crisi di rabbia con manifestazioni comportamentali molto aggressive come
Prendiamo ad esempio un bambino di circa due anni che ha crisi di rabbia con manifestazioni comportamentali molto aggressive come lanciare oggetti, rompere, scaraventare sedie, picchiare ripetutamente per delle frustrazioni apparentemente minime.
Ecco che in questo caso i genitori potrebbero essere invitati a considerare il bambino nella fase dei cosiddetti terribili due. Sarebbe utile invece andare a comprendere il grado di disagio percepito dal genitore o comunque valutare l’entità di queste crisi.
Dietro ad ogni persona neurodivergente c’è una famiglia, talvolta confusa, spaventata, rifiutante, evitante.
Non è una colpa essere neurodivergente: la natura gioca ai dadi con i nostri geni. Al momento non ci sono risposte univoche circa un riscontro genetico, in molti casi si parla di familiarità o predisposizione, su cui poi l’ambiente esercita delle capacità d’intervento sulla linea di sviluppo.
Tuttavia la ricerca nel campo delle neuroscienze fa progressi e abbiamo l’obbligo di essere fiduciosi sul fatto che prima o poi otterremo molte risposte alle nostre domande e molti strumenti e metodi per costruire un mondo a misura di tutti, ma proprio tutti, senza lasciare indietro nessuno.
B. Alfieri,
Dottoressa in Psicologia e Scienze dell'educazione,
insegnante e mamma di un piccolo neurodivergente